QUELLA BATTAGLIA PER UN PSI DIVERSO
QUELLA BATTAGLIA PER UN PSI DIVERSO
Dopo la rovinosa dissoluzione del Psi siè tentati dall’ identificare quel partito tout court con la spregiudicatezza di Craxie gli scandali di Tangentopoli, che ne seppellirono la storia secolare sotto un cumulo di macerie, dimentichi che il Partito socialista fu anche dei galantuomini come Pertini, Lombardi, Antonio Giolitti. E Valdo Spini. Ora proprio Spini in La buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un socialista edito da Marsilio, prefazioni di Carlo Azeglio Ciampi e Furio Colombo, fa i conti con la sua lunga militanza, iniziata nel lontano 1962, folgorato ancora bambino da un’ orazione di Tristano Codignola in onore di Pietro Calamandrei, e proseguita poi nella corrente lombardiana per una lunga vita: consigliere comunale, deputato, sottosegretario, ministro. «C’ ero prima e dopo Craxi», ci tiene a precisare, e la figura del leader socialista domina invariabilmente tutto il racconto. Non poteva essere diversamente. Dal 1976 al 1993 il Psi è stato Craxi, e Craxi è stato il Psi. Perché ne scriviamo allora? Cosa rende interessante il suo percorso? Semplicemente in quella storia Spini occupa un posto non gregario, ma di vigile coscienza critica, antesignano della moralizzazione della politica – fu tra i primi sin dal 1985 a sottoporre le sue entrate e le sue spese a un comitato di garanti – fautore di una legge sull’ incandidabilità già dopo la sentenza di primo grado – la legge del Quadrifoglio – una norma Severino ante litteram. Ma assiso a soli 35 anni al ruolo di vicesegretario, l’ altro vice, Martelli, ne aveva 38, («cosa fu il sabba del Midas se non una rottamazione generazionale»), si ritrovò ben presto emarginato dal sancta santorum di via del Corso, inascoltate le sue mozioni sulla moralità pubblica, mentre il Psi perdeva la sua anima, invischiato in un reticolo di malaffare, di cinismo istituzionale, nella convinzione errata che lo spirito degli anni Ottanta sarebbe stato eterno. Spini colloca l’ inizio della fine al congresso di Palermo, nel 1981, quando Craxi nottetempo impone con un diktat l’ elezione diretta del segretario, fino a quel momento deliberata collegialmente dalla direzione. È un blitz cesarista. Da quel momento Spini, in quanto minoranza, ottiene prestigiosi incarichi di governo, ma la sua voce all’ interno viene silenziata, nel’ 84 il partito sabota la proposta contro il finanziamento illecito, finoa un tentativo di estromissione alle politiche dell’ 87, quando Craxi lo piazza al tredicesimo posto della lista in Toscana, convinto così di sbarazzarsene. Ma grazie a 19,525 preferenze riesce a farsi eleggere lo stesso. E quando alla Camera incoccia il segretario questi da consumato professionista della politica gli dice: «Così la volevo la tua vittoria, che fosse chiara!». Il libro è trapuntato di aneddoti di un mondo ormai lontano. Pertini che nell’ 83 gli rivela in anticipo che darà l’ incarico a Craxi; Berlinguer che mangia da solo nel self service di Montecitorio; il leader dei nenniani fiorentini Gigi Mariotti che al bar ordina la spuma, «perché costa meno», ché in un partito dei lavoratori occorre mostrare sobrietà. Il drammatico colloquio con Craxi, in piena Tangentopoli, nel quale il Capo gli confessa: «Effettivamente le cose erano andate troppo oltre». Spini è valdese, suo padre, Giorgio, fu un dirigente del Partito d’ azione, due atout che fanno di lui un dirigente politico molto poco italiano. Perché, con questa diversità, egli rimane fedele al Psi sino all’ ultimo? «Avrei potuto contrastare Craxi favorendo la strategia di De Mita che voleva fermare la crescita socialista, o quella di Berlinguer radicalmente ostile al nuovo corso socialista. Non ho voluto farlo rimanendo leale al partito». Quando Craxi, braccato dalle Procure, si dimette, Spini tenta di diventarne il successore, ma nemmeno lì avrà fortuna perché i maggiorenti faranno confluire il loro peso su Benvenuto: a quel rodeo congressuale è dedicato un ampio capitolo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
CONCETTO VECCHIO