Nilde Jotti: una riformista
Nilde Jotti: una riformista
Ho accettato molto volentieri l’invito della Fondazione intitolata a Nilde Jotti, e della sua Presidente Livia Turco, per questo intervento, convinto come sono della necessità di riannodare le fila della storia della nostra Repubblica, che ha avuto Nilde Jotti tra i suoi protagonisti.
Il 20 giugno 1979 entravo alla Camera dei Deputati, e nella prima seduta elessi Nilde Jotti come presidente della Camera. La votai con convinzione, mi emozionai quando sottolineò di essere la prima donna eletta ad una così alta carica istituzionale. La rieleggemmo nel 1983 e nel 1987 per un totale quindi di tredici anni.
Severa, serena, conscia del suo ruolo, tutta tesa a difendere il prestigio del Parlamento anche nelle modalità di svolgimento delle sedute e nel comportamento delle singole deputate e dei singoli deputati. Così era la Presidente Nilde Jotti. Avere un suo sguardo di approvazione costituiva un bel premio per un giovane deputato. Sorrisi e cenni di approvazione me li rivolse e mi confortarono quando pronunciai nel 1984 uno dei discorsi più delicati della mia vita parlamentare, la dichiarazione di voto del Psi favorevole al nuovo Concordato rivisto e adeguato ai principi costituzionali e alla prima Intesa quella con la Chiesa Valdese.
Il mio primo ricordo risale al 1964, e ai funerali di Palmiro Togliatti. Camminavo nel corteo funebre nella fila della delegazione della Federazione Giovanile Socialista con Claudio Signorile: davanti a noi quella dei dirigenti del Psi, tra cui Pietro Nenni, allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri. A un certo punto, Nilde Jotti, in automobile col fratello di Togliatti, Eugenio, si fermò per invitare con molta gentilezza Nenni, già anziano, a salire, ma il nostro vecchio leader rifiutò cortesemente. Aveva troppo il senso dei sentimenti delle classi popolari per sottrarsi a quel percorso a piedi: uomo del popolo tra il popolo.
Mi sovvenne di quella lezione quando da vicesegretario del Psi, camminai a piedi dietro la bara di Berlinguer nel percorso tra Botteghe Oscure e Piazza San Giovanni dove Nilde Jotti avrebbe presieduto la manifestazione del funerale del segretario comunista, indirizzando quel ringraziamento “dal profondo del cuore” al presidente della Repubblica Sandro Pertini, che è passato anch’esso alla storia.
Ci sono tanti aspetti dell’eredità di Nilde Jotti di cui stiamo trattando qui ed in particolare della sua battaglia, politica e personale, per quella che definiva l’emancipazione femminile. Per la mia collocazione nelle vicende politiche di quegli anni, mi concentrerò principalmente sul suo riformismo e in particolare sul suo riformismo istituzionale.
Designando la Jotti, Il Pci sceglieva come si è detto una donna, e una veterana della politica comunista, partito per il quale sedeva ininterrottamente alla Camera dal 1946, dai tempi della Costituente. Quindi indubbiamente una scelta di partito, ma in un contesto e con un significato diverso da quello che aveva portato nel 1976 all’elezione di Pietro Ingrao durante la stagione della solidarietà nazionale. Nel 1979 la solidarietà nazionale era ormai rotta e il Pci si collocava all’opposizione, opposizione che fu tra l’altro estremamente dura nel periodo della legislatura successiva, al tempo del decreto sulla contingenza del governo Craxi nel biennio 1984-85.
In tutti questi anni Nilde Jotti si comportò da Presidente istituzionale e non da Presidente di parte, non assumendo mai posizioni squilibrate né contro né a favore dei governi via via in carica ma sempre nell’intento di tutelare il prestigio del Parlamento, non ricercando una surroga di ruoli tra questo e il governo, bensì affermando l’efficienza e l’operatività del Parlamento stesso anche nei rapporti col governo.
Sono anni in cui Nilde Jotti si conferma come un dirigente politico del Pci, mai peraltro caratterizzandosi nelle istituzioni come esecutrice acritica di ordini altrui. All’inizio del suo mandato dovette affrontare un durissimo ostruzionismo dei radicali e seppe venirne a capo innovando nell’interpretazione dei regolamenti parlamentari. Ma il momento più difficile dovette affrontarlo a proposito del decreto sulla contingenza, reiterato da Craxi nel 1984, quando non esitò a prendere una posizione diversa dalla segreteria Berlinguer sulle modalità di conversione del decreto contingenza-bis, sostenuta in questo dal capogruppo alla Camera Giorgio Napolitano.
Nella sostanza si trattava di decidere quali e quanti pareri dovessero essere dati sul decreto bis. Se fosse prevalsa l’interpretazione più ampia non si sarebbe potuto andare al voto in tempo utile per la conversione. La Jotti, ferma difensore della centralità del Parlamento e delle sue prerogative, non considerava coerente con questa visione l’impedire che in Parlamento si giungesse alla decisione e quindi al voto.
Dimostrando questa indipendenza, il prestigio di Nilde Jotti crebbe a tal punto che il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga le affidò nel 1987 un “incarico esplorativo” prima di procedere allo scioglimento del Parlamento, e che, lasciata la Presidenza della Camera nel 1992, la Jotti stessa fu chiamata nel 1993 alla presidenza di una di quelle commissioni bicamerali cui in quel periodo si affidava la invocata riforma delle istituzioni.
Nel corso di tutte queste vicende la Jotti cercò di affermare il suo riformismo istituzionale che, se rivendicava la centralità del Parlamento così come sancito dalla Costituzione, si apriva invece alla necessità di riforme importanti del sistema istituzionale e del Parlamento stesso, rese necessarie dalla crisi politico-istituzionale che caratterizzava in quegli anni la prima repubblica. Già nel discorso di insediamento del 20 giugno la Presidente Jotti aveva indicato la necessità di: “Affrontare quelle parti della Costituzione che il tempo e l’esperienza hanno dimostrato inadeguate”, nonché di “tutelare in primo luogo i diritti delle minoranze ma anche il diritto-dovere della maggioranza di legiferare” …).
Il pensiero di Nilde Jotti sull’argomento venne esplicitato organicamente poche settimane dopo nel discorso che la Presidente della Camera tenne per la concessione della medaglia al Valor Militare alla città di Piombino, il 9 settembre 1979.
Nella testimonianza di Giorgio Frasca Polara, il suo fedele e intelligente portavoce, la Jotti preparò queste note centrate sulla riforma del bicameralismo e sulla diminuzione del numero dei parlamentari:
“basta con questo assurdo bicameralismo perfetto, basta con mille parlamentari (“quanti ne ha la Cina, ma loro sono un miliardo e trecento milioni”), federalismo istituzionalizzato trasformando il Senato in Camera delle regioni e dei poteri locali: “Perché il Senato non potrebbe essere come il Bundesrat tedesco?”
Il resoconto che della manifestazione fece l’Unità non riporta queste frasi, ma Frasca Polara testimonia che furono effettivamente pronunciate.
Il famoso articolo di Bettino Craxi sull’Avanti, “Ottava legislatura” in cui il segretario socialista lancia la proposta di una Grande Riforma “…che abbracci insieme l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale” è del 28 settembre 1979; quindi, sia pure di poco, successivo. La Jotti si caratterizza pertanto come l’esponente del Pci che, pur dalle proprie peculiari posizioni, accetta maggiormente il terreno del dibattito sulle riforme istituzionali e vi assume una propria collocazione.
Com’è noto alla Grande Riforma di Bettino Craxi di cui avrebbero dovuto essere protagonisti i partiti, si contrappose la proposta del Presidente del Partito Repubblicano, Bruno Visentini, per un governo sganciato dal condizionamento dei partiti politici (nel gergo politico si parlò di “governo diverso” o di “governo degli onesti” o di governo dei tecnici”). Sulla proposta Visentini la Jotti viene intervistata su Repubblica da Giampaolo Pansa il 19 dicembre 1980 e si dichiara “contraria “, aggiungendo: “.. e in modo nettissimo. Un governo separato dai partiti non risolve nulla, non è utile a curare la crisi del sistema”. La Presidente della Camera riepiloga invece la sua ricetta in due punti principali: differenziare i compiti delle due camere e ridurre il numero dei parlamentari. (“con assemblee più ristrette, il Parlamento potrebbe funzionare meglio e si eviterebbero molte frustrazioni”).
Sempre in quest’intervista, Nilde Jotti ribadisce invece un “no, assolutamente” all’abolizione del voto segreto e all’introduzione dello sbarramento del 5% (“…qualsiasi voce nuova deve poter trovare posto in Parlamento…”).
Per quanto attiene al dibattito politico in corso sulla proposta di Craxi, la Jotti apre al dialogo: “il segretario del Psi ha ragione quando afferma che i partiti debbono affrontare il più rapidamente possibile i nodi della questione istituzionale. La gente attende questo rinnovamento e le forze per farlo ci sono…non sono d’accordo con Craxi – aggiunge invece- nel vedere lo spettro di Weimar. La democrazia italiana è nata da una vittoria di popolo, non da una sconfitta…”.[1]
il 17 settembre 1982 Nilde Jotti è l’oratore principale alla tavola rotonda su “Istituzioni: quali riforme “al Festival Nazionale dell’Unità che si svolge a Tirrenia e in cui a rappresentare le posizioni del Psi vengo invitato come allora uno dei vicesegretari del Partito. E’ interessante rilevare che anche in quella sede, di fronte ad un folto pubblico in prevalenza di militanti comunisti, la Jotti, pur con varie cautele, ribadisca che il tema delle riforme istituzionali va affrontato in sé e per sé senza subordinarlo ad altri, (il che non era certo la tesi di altri esponenti del suo partito), ribadendo poi le sue posizioni: sì alla riforma del bicameralismo, sì alla riduzione del numero dei Parlamentari sì alla ricerca di un corretto rapporto tra governo e parlamento , no all’abolizione del voto segreto, anche se su questo punto il più intransigentemente negativo nel dibattito è proprio il democristiano Gerardo Bianco.
Il tema del voto segreto (che sarà poi abolito o meglio, drasticamente limitato, nel 1988 su richiesta del Psi) era allora di particolare attualità perché il fenomeno dei franchi tiratori costituiva lo strumento per far cadere i governi della prima repubblica.
Mi sia permesso di aggiungere un ricordo personale che non figura sul resoconto de l’Unità. Nilde Jotti non usava certo chiamare in campo Togliatti per difendere le sue tesi, ma quella sera volle dare una particolare enfasi all’importanza che attribuiva ai temi delle riforme istituzionali. “Togliatti -disse con il suo rotondo accento emiliano rivolgendosi in particolare ai militanti, – al tempo della Costituente, ci mandava la sera nelle sezioni del Partito a spiegare gli articoli della Costituzione”. Intendeva con questo riaffermare da un lato l’importanza dei temi istituzionali, dall’altro la necessità che venissero affrontati con un ampio dialogo democratico.
Il riformismo della Jotti non era cioè il frutto di una concezione tecnico-giuridica distaccata dalla passione politica, al contrario.
Il 15 settembre del 1982 è la volta del Corriere della Sera ad intervistarla per la penna di Paolo Graldi. Ancora una volta Nilde Jotti è netta e decisa: “…rifiuto la tesi secondo cui prima bisogna risolvere gli altri aspetti della crisi e poi dedicarsi alle istituzioni perché mi pare che questo sia troppo riduttivo. “
La Jotti ripropone il tema della riforma del bicameralismo, sottolineando che quello perfetto è un’unicità del tutto italiana, ammette la necessità della riforma dei regolamenti parlamentari e ribadisce la sua tesi su un drastico ridimensionamento del numero dei parlamentari: “credo che si debba andare dalla metà ad un terzo di meno”.[2] E ‘un parlamento così riformato che la Jotti considererà peraltro sempre al centro del sistema istituzionale in coerenza col dettato Costituzionale
Una volta mi capitò di incontrarla la mattina al caffè della buvette di Montecitorio e mi disse che avrebbe voluto incontrare Bettino Craxi per capire meglio che cosa egli intendesse con la “Grande Riforma”. Naturalmente riportai quella richiesta. Ma, com’è noto, se si eccettua la più tarda abolizione (o drastica limitazione) del voto segreto del 1988, il leader socialista preferiva tenere per sé questa prospettiva piuttosto che spenderla nel confronto con gli altri partiti.[3]
Una riformista quindi, Nilde Jotti. E lo sarà come presidente della penultima bicamerale, (l’ultima è stata quella presieduta certamente in un ben diverso contesto alcuni anni dopo da Massimo D’Alema).
La commissione bicamerale presieduta da Nilde Jotti, insediatasi nel 1993 presentò la sua relazione nel 1994 al termine della vita brevissima che ebbe quella legislatura: vi compaiono i temi di una riforma che nella figura del primo ministro eletto in Parlamento e nella sfiducia costruttiva si avvicina molto al sistema tedesco. La relazione consegna invece alla futura riflessione come insoluti i due nodi, alla Jotti molto cari, della riforma del bicameralismo perfetto e della riduzione del numero dei parlamentari Ma siamo alla fine della prima repubblica, una repubblica che non è riuscita ad autoriformarsi, e che sta passando ad un sistema elettorale di tipo prevalentemente maggioritario.
La Jotti, quindi, può essere annoverata tra i riformisti sconfitti, ma si delinea come una riformista coerente, più avanti per molti aspetti delle posizioni del suo stesso partito. Nel frattempo (1991) era nato il Pds che si affidò poi ai referendum piuttosto che al dialogo e all’accordo tra i partiti per far cadere il sistema e con esso la maggioranza di pentapartito da cui era escluso, con gli esiti di lungo periodo che conosciamo.
Oggi, peraltro, i temi della Jotti tornano di attualità. La riduzione del numero dei parlamentari isolatamente considerata è stata confermata dal recente referendum dopo essere stata un cavallo di battaglia del Movimento 5Stelle, certamente in un’accezione del ruolo del Parlamento molto diverso da quello pensato da Nilde Jotti. La riduzione del numero dei parlamentari obbliga oggi ad una nuova legge elettorale. Si parla di un ritorno al proporzionale con l’introduzione di uno sbarramento. In un certo senso “ritornare al Vicolo Corto” come nel vecchio gioco di Monopoli. Si torna cioè alla Prima Repubblica, a meno che questo ritorno alla proporzionale non sia dotato di meccanismi di stabilità alla tedesca non solo la soglia di sbarramento, ma la mozione di sfiducia costruttiva, e magari l’elezione del primo ministro in Parlamento.
Quanto al rapporto stato-regioni esso è stato sottoposto in questo periodo di pandemia del corona-virus ad un tale stress, che l’idea di trasformare il Senato in Camera delle Regioni, potrebbe diventare addirittura una necessità.
Dobbiamo quindi considerare l’eredità riformista della Jotti nelle sue caratteristiche di attualità e soprattutto cercare di non ripetere quegli errori di inazione e di divisione tra le forze politiche che ne impedirono l’attuazione in quegli anni. Non ce lo possiamo permettere.
Valdo Spini
3/XII/ 2020
[1]L’intervista è ripubblicata in La grande riforma, a cura di C. Macchitella, “Quaderni del Circolo Rosselli” ,n.7-8 del 1982, La Nuova Italia , Firenze,pagg.94-96.
[2] Ripubblicata in op.cit, pagg.189-192.
[3] Così fu in particolare per la proposta di elezione diretta del Presidente della Repubblica che viene presentata dal Psi nel seminario della Direzione di Trevi del 16 ottobre 1982 con la relazione introduttiva di Giuliano Amato, pubblicata in op.cit. pagg 162-169. Nella precedente conferenza programmatica di Rimini (31 Marzo-4 aprile 1982) questo tema non era stato proposto. (Gli atti della conferenza di Rimini furono editi da “Il Compagno”, Roma 1982)..